Sulla Prima Guerra Mondiale, su cui da tempo era sceso l’oblio, in coincidenza con la ricorrenza dei cento anni dal suo scoppio, si è ritornati a parlare quest’anno con tutti gli approfondimenti e le celebrazioni del caso.
La Grande Guerra, con la sua scia di lutti e devastazioni, fu il primo vero conflitto ‘mondiale’ della storia dell’umanità ed ebbe molti lasciti importanti segnando, davvero, la fine di un’epoca.
La lunga pace che aveva, durante la Belle Epoque, contribuito a far assurgere il progresso a vero motore della società, prefigurando scenari inimmaginabili fino a pochi decenni prima, naufragherà infatti sugli insanguinati campi delle pianure francesi, delle vette alpine e delle sconfinate steppe orientali, fagocitando intere generazioni di giovani e ben quatto imperi: quello austro-ungarico, quello tedesco, quello ottomano e quello Russo.
Un evento di tali proporzioni non poteva non avere un grande impatto anche sul calcio europeo dell’epoca.
Lo scoppio delle ostilità, il 28 luglio 1914 vide, su opposti schieramenti, fronteggiarsi, da una parte gli Imperi Centrali, dall’altra Francia, Inghilterra e Russia.
Oltre che un profondo attacco all’internazionalismo, da sempre intrinseco nell’atletismo, lo scoppio della guerra colpiva lo sport nel suo stesso tessuto generazionale.
Per la prima volta nella storia moderna ci si trovò di fronte ad una guerra che gettava nella sua macchina di morte e distruzione intere generazioni; tutti gli stati belligeranti avevano infatti provveduto alla mobilitazione generale, che sottraeva alla vita civile le fasce più giovani della popolazione. Ciò determinò, fin da subito, la sospensione delle competizioni di football in gran parte dei paesi in guerra: in Germania, in Inghilterra, in Ungheria, in Boemia, soltanto nei territori austriaci dell’impero asburgico si continuò a giocare mentre in Francia e in Russia non si disputavano ancora campionati federali.
Si verificò tuttavia un fenomeno, in qualche modo paradossale, se infatti la guerra aveva sospeso il calcio nelle sue espressioni tradizionali, la guerra di per sé stessa produceva nuove forme di vitalità sportiva. Il calcio sopravviveva tenacemente tra i soldati degli imperi centrali, schierati sui fronti più lontani, mentre, sul versante opposto, le autorità militari britanniche incoraggiavano il football e il rugby, praticati nelle retrovie e, persino, sulla stessa linea di battaglia del fronte francese.
Il football fu un motivo insistente nella propaganda di guerra britannica. “Giocate il grande gioco, e arruolatevi nel battaglione Football”, si leggeva in un manifesto inglese di arruolamento.
Risparmiato dal grande macello, per la sua lontananza geografica, il football continuava invece il suo processo di crescita nei paesi neutrali, e, in particolare nell’America Latina, Brasile, Argentina e Uruguay videro infatti moltiplicarsi i loro club ed iniziano così a svincolarsi, per tecnica e per concezione di gioco, dall’antica matrice britannica.
Lo sport di guerra ricevette un ulteriore impulso dopo l’intervento degli Stati Uniti, nel 1917; al seguito delle truppe arrivarono infatti i loro corpi di istruttori sportivi e fu proprio in quell’occasione che venne introdotto, per la prima volta in Europa, il baseball, largamente praticato dai soldati USA in Francia.
Un anno dopo, nel ‘radioso maggio del 1915’, la guerra si estese anche all’ Italia, portando così, tra le altre cose, anche un colpo definitivo alla roccaforte delle concezioni nazionalistiche in tema di cultura fisica. La ginnastica, fino ad allora legittimata dalle finalità militari, lasciava, per la prima volta, il posto al ciclismo e all’automobilismo di guerra, al cimento dell’impresa aeronautica, mentre i giochi sportivi, in particolar modo dopo la svolta nella condotta psicologica della guerra seguita alla rotta di Caporetto, si affermavano tra le pratiche ricreative di guerra.
Già nel 1917 si ha notizia che le autorità militari italiane si preoccuparono di spianare i terreni vicini alle zone di operazione per la costruzione di campi da gioco. Persino tra i soldati italiani prigionieri in Germania la passione sportiva non si spense, nel campo di Mathausen vennero costituiti, nell’estate 1917, numerosi club di football.
La guerra esigette un tributo di vittime immane, tanti furono dunque i calciatori partiti per il fronte e periti nelle trincee.
Nei soli primi tre mesi di guerra morirono 27 giocatori; durante il conflitto il Milan perse 12 dei suoi uomini tra calciatori e dirigenti; l’Internazionale commemorava alla fine della guerra i suoi 26 morti. Più della metà dei giocatori dell’Udinese e dell’Hellas di Verona non fece ritorno. La Juventus perse in guerra il suo primo presidente: Enrico Canfari.
Non vi fu squadra di calcio che non ebbe i suoi caduti, proprio ad essi di devono molti dei nomi degli stadi italiani. Ciò nonostante, gli anni della guerra non videro la cessazione completa delle attività sportive nella penisola. Interrotto il massimo campionato di calcio, esso fu sostituito dalle coppe regionali, mentre si svolsero regolarmente i tornei minori. A Torino, nel 1915, nacque il primo periodico italiano di club: “Hurrà!”, come baldanzoso grido di guerra dei supporters della Juventus.
In Italia la guerra, tra i suoi tanti effetti, ne ebbe uno davvero molto importante, quello di promuovere l’affermarsi del sentimento di ‘nazione’. L’incontro tra giovani di diverse culture e sensibilità, costretti a condividere un’esperienza di morte, contribuì ad un più rapido diffondersi di abitudini e di linguaggi rimasti, fino ad allora, esclusivi di alcune aree geografiche o sociali. Basti pensare che la maggioranza dei combattenti italiani era composta da contadini, dai giovani dell’Italia rurale, che era rimasta del tutto estranea al mondo del calcio. La trincea tenne a balia i primi vagiti della cultura di massa, da cui il calcio trasse in seguito un incalcolabile beneficio.
Se in patria le partite si limitarono a manifestazioni minori, in cui vennero lanciati tanti giovani calciatori, su cui poi, nel dopo guerra, si sarebbero rifondate le basi del calcio, in zona di guerra non mancarono le partite tra le formazioni dei diversi corpi militari, né tra squadre dei paesi alleati.
Nel marzo 1918 una rappresentativa di giocatori azzurri in servizio presso il XX autoparco di Modena incontrò una squadra di militari belgi guidati dal capitano Louis Van Haege, ex giocatore del Milan, che un referendum del 1911 aveva giudicato il miglior giocatore in Italia. Fu uno dei pochi pionieri internazionali del calcio rivisti sui nostri campi; gli altri erano tornati nelle loro patrie agli inizi delle ostilità e molti di essi perirono in guerra, tra questi, James R. Spensley, il fondatore del calcio genovese, ferito a La Bessée, e morto poi il 10 novembre 1915 nell’ospedale di Magonza.
Ma le partite forse più particolari ed incredibili furono quelle di cui si hanno notizie confuse e contrastanti, tenutesi nella ‘terra di nessuno’ in occasione della cosiddetta ‘tregua di Natale’ del 1914.
La notte di Natale del 1914, in alcune trincee del fronte occidentale (in particolar modo nelle Fiandre, nella zona di Ypres) ci fu una tregua ‘non dichiarata’. Si trattò di una eccezionale circostanza dettata dalla spontaneità di un sentimento di fratellanza universale, più forte persino del rombo dei cannoni. Non la ordinarono i comandi supremi che, di contro, fecero di tutto per condannarla ed accertarsi che mai più si ripetesse nulla di simile in futuro.
I soldati di entrambe le fazioni uscirono allo scoperto, si abbracciarono, fumarono, cantarono insieme, si scambiarono doni e organizzarono persino delle estemporanee partite di calcio. Gli Stati Maggiori, coinvolti nel conflitto, fecero di tutto anche per nascondere l’accaduto e cancellarne ogni traccia o memoria. Solo recentemente sono emerse dagli archivi militari di tutta Europa, lettere, diari e persino fotografie che sanciscono inequivocabilmente che la tregua, anche se non ufficiale, avvenne realmente e si protrasse addirittura per più giorni, nel periodo Natalizio del 1914.
Di recente sono apparsi anche alcuni saggi sull’argomento ed è stato anche realizzato un lugometraggio dal titolo “Joeux Noel” (“Merry Christmas” nella versione Internazionale), che ha vinto il Leone d’Oro al Festival del cinema di Berlino.
La leggenda (immortalata anche in un celebre video di Paul Mc Artney: Pipes of Peace), vuole che, dopo essersi scambiati pacificamente i già citati regali e aver recuperato e seppellito i corpi dei commilitoni caduti in battaglia, tra i soldati sbucasse un pallone da calcio. Gli scozzesi, allora, sfidarono i sassoni in una partita che venne giocata tra soldati nemici che, per un giorno, cercarono di dimenticare gli orrori del conflitto mettendo da parte i loro obblighi di militari in tempo di guerra. Il match si giocò proprio nei 30/40 metri che separavano le due trincee e finì col punteggio di 3-2 per i tedeschi. L’amichevole contesa non terminò col triplice fischio dell’arbitro: un soldato maldestro calciò il pallone in maniera troppo violenta contro un reticolo di filo spinato facendo sì che si bucasse…