Chi vi scrive ha vissuto la propria infanzia e pubertà in un’epoca diversissima da questa, dove tutto era ancora a misura d’uomo, dove si viaggiava poco, c’erano solo due canali in tv, il Nazionale ed il Secondo, in cui il telefono di casa era quasi sempre un duplex, e fuori di casa a gettoni. Non c’era internet, e quindi neppure i social, le notizie dall’estero arrivavano a fatica e, quasi sempre, per mezzo della radio, elementi, tutti, che ammantavano ogni cosa di magia e meraviglia.
In questo contesto il vostro cronista venne a sapere tardi di Bobby Charlton, una vera icona degli anni ’60, e, non avendo immagini per ammirarlo, lo immaginava come una sorta di marziano, un eroe d’oltremanica, geniale e straripante, un trascinatore della sue squadre: il Manchester United, e la nazionale dei ‘Tre Leoni’. Quando si palesò l’opportunità di vederlo, ai mondiali messicani del ’70, aveva già 33 anni, e, vi confesso che rimasi un po’ deluso: quell’eroe, immaginato come una sorta di nuovo Lancillotto, fisicamente era invece allampanato e stempiato, con i pochi capelli che coprivano a mala pena la sua testa, ma brillava di luce propria, dotato com’era di classe pura ed autentico genio calcistico.
Fu uno dei pochi fortunati che sopravvissero al mortale schianto di Monaco del 6 febbraio 1958, quando perirono la maggior parte dei giocatori dello United, che gli lasciò comunque profonde ferite nell’animo. Uno schianto che, come il famigerato evento di Superga che distrusse il Grande Torino, rase al suolo quel grande Manchester United.
Proprio su di lui e su una manciata di fenomeni scovati in tutto il Regno Unito e lanciati in prima squadra (i ‘Busby boys’), il geniale Matt Busby ricostruì una squadra vincente, destinata a diventare leggendaria, conquistando una Coppa d’Inghilterra nel 1962, due titoli nazionali nel 1964-65 e nel 1966-67, e, dulcis in fundo, la Coppa dei Campioni nel 1968, a Wembley, un 4-1 al Benfica marchiato a fuoco nella storia dei Red Devils che Bobby Charlton impreziosì con la rete d’apertura e con quella di chiusura.
In quel ‘Maledetto United’ (dal titolo della celebre pellicola di Tom Hooper) sugli altri erano due i giocatori che si contendevano gli onori delle cronache: George Best e Bobby Charlton, e, pur volendo, sarebbe stato davvero difficile trovare due persone così diverse.
Chioma al vento, idolatrato dai giovani dell’epoca come una rock star, il nordirlandese era geniale, irrequieto, discontinuo, sempre alla ricerca di un giusto equilibrio che soltanto l’alcol sembrava dargli, amante della bella vita e delle donne, sempre sulle prime pagine dei tabloid per qualche scandalo, indolente per magari 85’ e poi capace di accendersi per cinque minuti in cui creava dal nulla giocate fantastiche che decidevano il match.
Di contro, riservato, intelligente, Bobby, ambidestro dal tiro potente, fu uno dei primi calciatori universali, centrocampista di regia, duro e creativo, capace di inserirsi e spaziare su tutto l’arco d’attacco, antenato dei ‘falsi nueve’ che oggi impazzano sui media e riempiono la bocca dei mister, fu l’indiscusso trascinatore e simbolo della sua squadra di club e della nazionale, con cui conquistò il titolo mondiale nel 1966 da grande protagonista.
Segnò contro il Messico e contro il Portogallo in semifinale, anche se ad alzare la Coppa Rimet nel cielo azzurro di Londra, sotto gli occhi della Regina Elisabetta II, fu un altro mito del calcio inglese, il capitano Bobby Moore.
Bobby Charlton, che in gran parte della carriera in nazionale, giocò insieme al fratello Jack, simbolo invece del Leeds United, vinse il pallone d’oro nel 1966 e venne nominato Sir nel 1994. Chiuse la carriera con 758 presenze e 249 reti nello United e con 106 presenze e 49 gol in nazionale.
Si ritirò nel 1976, finendo la carriera in Irlanda nel Waterford United.
R.I.P. Bobby, grande eroe di un calcio che, fu, sospeso tra mito e leggenda…