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4 maggio 2015.

Dopo 82 gare di regular season in cui ha condotto i suoi Golden State Warriors a un impressionante record di 67 vittorie e 15 sconfitteWardell Stephen Curry viene proclamato MVP della stagione NBA 2015, durante la quale, il nativo di Akron, ha fatto registrare 25,8 punti, 4,3 rimbalzi, 7,7 assist di media a gara ed è riuscito a mettere a segno una prestazione da ben 51 punti (contro i Dallas Mavericks il 4 febbraio) e due da 40 o più (40 contro Miami il 25 novembre 2014, 45 contro Portland il 9 aprile).

Il giorno successivo, il numero 30 della squadra di San Francisco riceve il trofeo destinato al miglior giocatore, il Maurice Podoloff Trophy, e successivamente, nel suo discorso per l’assegnazione del premio, ringrazia uno ad uno tutti i suoi compagni di squadra, tutti i suoi allenatori e tutti i familiari che gli hanno permesso di raggiungere un simile traguardo.

Curry è il secondo giocatore della storia degli Warriors ad ottenere tale riconoscimento: il primo era stato Wilt Chamberlain, l’uomo da 100 punti in una sola partita, non uno qualunque.

6 giugno 2015.

Dopo una cavalcata lunga 21 partite (16 vittorie e 5 sconfitte), in gara 6 delle finali NBA, i Golden State Warriors battono per la quarta volta nella serie i Cleveland Cavs di Lebron James e si aggiudicano il secondo titolo della loro storia, 40 anni dopo il primo (1974-75). Curry, nonostante dei playoff da 28,5 punti,5 rimbalzi e 6,4 assist di media a partita, non viene premiato come MVP delle Finali, titolo che, invece, va al suo compagno Andre Iguodala, decisivo più di altri, con le sue prestazioni, nel portare il Larry O’Brien Trophy a “The City”.

Al prodotto di Davidson però non interessa: il suo obiettivo, vincere il titolo, lo ha portato a termine e, per questo, non può far altro che festeggiare coi compagni, prima con champagne e sigari direttamente nello spogliatoio dopo l’ultima gara, poi, qualche giorno più tardi, con la classica parata cittadina che si riserva ai vincitori del campionato NBA.

La popolarità, la fama, l’amore dei tifosi per Steph toccano vette mai raggiunte prima.

20 dicembre 2015.

Contrariamente a quanto si potesse pensare, la conquista dell’anello di campione NBA non ha per nulla appagato il numero 30 degli Warriors, che, dopo 27 partite, ha prodotto performances ancora più straordinarie e più incredibili dell’anno precedente: una partita da 53 punti (contro New Orleans il 31 ottobre) e già ben 6 oltre quota 40. Le medie sono spaventose: 31,8 punti, 5,4 rimbalzi, 6,2 assist di media a incontro, il tutto tirando con il 52% dal campo e il 45% da 3 punti. Disumano.

Quello che però impressiona più di ogni altra cosa è come Curry sembri essere ancora più sicuro di sé, ancora più determinato e feroce nel voler portare, per il secondo anno di fila, la sua squadra in cima alla lega di pallacanestro più famosa al mondo, ma allo stesso tempo giochi con una leggerezza, una gioia di vivere e una voglia di divertirsi tale, da renderlo letteralmente infermabile. Il risultato è che gli Warriors hanno messo a segno il miglior inizio di sempre, in termine di vittorie (24 consecutive), di una stagione regolare NBA e, al momento, paiono una squadra schiacciasassi, senza rivali e con una fame di gloria, di vittoria e una consapevolezza nei propri mezzi ancora maggiori rispetto allo scorso anno. Tutto questo comporta, inevitabilmente, che la squadra venga considerata la favorita per alzare, a giugno, il trofeo di campioni e che Steph, invece, sia l’indiziato numero uno per sollevare, per il secondo anno di fila, quello di miglior giocatore.

Stiamo infatti parlando di un atleta che, indubbiamente, ha qualcosa di speciale, un qualcosa che ha portato molti, per la sua capacità di riuscire a segnare sempre e comunque contro qualunque difesa, di riuscire a stupire il pubblico, di influenzare positivamente i compagni attorno e per quello che di nuovo e rivoluzionario sta portando al gioco, ad avvicinare (e chi erroneamente anche a paragonare) quello che sta facendo lui con quello che ha fatto qualche anno fa sua maestà Michael Jordan.

Un ruolo e un’influenza quindi talmente forti, da far chiedere immediatamente a tutti: Ma se non ci fosse, dove sarebbe e dove potrebbe arrivare Golden State?

Una domanda che si sono fatti in tanti e che sempre più addetti ed esperti del mondo NBA si stanno facendo, faticando però a trovare una risposta plausibile e soddisfacente. In casi come questi infatti i numeri, sempre importanti e sempre più studiati nella pallacanestro, possono aiutare nell’elaborazione di un’ipotesi, ma, nel momento in cui bisogna tirare le conclusioni, si rivelano incompleti e inconcludenti, in quanto non permettono di tracciare un quadro che comprenda, analizzi e tenga in considerazione al suo interno anche quelle variabili e quegli aspetti non misurabili con delle cifre, ma a cui comunque bisogna sempre prestare attenzione quando si valuta una partita o una prestazione individuale in questa disciplina sportiva.

Cifre alla mano, senza Curry e tutto quello che di buono il nativo di Akron riesce a produrre, Golden State vedrebbe peggiorare sia il suo attacco (dove senza di lui il numero di punti per 100 possessi scenderebbe da 117,6 a 101,2) sia la sua difesa, dove le statistiche dicono che, senza la sua presenza in campo, verrebbero concessi più punti (da 95,6 con lui sul parquet a 104,8). Il Net rating, la differenza fra il numero di punti fatti e concessi dalla squadra ogni 100 possessi, così, con Golden State priva del suo MVP, passerebbe da essere il migliore di tutta l’NBA, ad essere quello di una squadra modesta, di media-bassa classifica: da 15,2 a -3,4, valore che, ad oggi, varrebbe il 20 posto nella lega.

Da questo, appare evidente come, anche in difesa, il ragazzo, sebbene non possa essere considerato non più che un difensore nella media (in grado però di rubare una discreta quantità di palloni), sia un fattore, visto che anche nella propria metà campo riesce a influenzare positivamente i compagni spingendoli a dare qualcosa in più, a sacrificarsi, a stare più attenti nel chiudere ogni possibile penetrazione avversaria e nel cercare di sporcare ogni passaggio e ogni tiro rivale.

A proposito di fattori poi, si possono considerare 4 principali fattori offensivi e difensivi per valutare le due fasi di gioco della squadra e verificare il loro andamento con o senza Curry in campo. In attacco, sia per quanto riguarda la percentuale effettiva dal campo (da 59,2% a 48,7%), sia la percentuale di palle perse (da 15,5 a 16,2) che il rapporto tra liberi tentati e tiri dal campo tentati (0,300 a 0,218), il trend senza il numero 30 è negativo. L’unica voce che esce leggermente dal coro è l’aumento della percentuale di rimbalzi offensivi catturati (da 25,4% a 29,5%), spiegabile col fatto che gli uomini schierati sul parquet, durante i minuti di riposo dell’MVP, hanno una maggiore predisposizione fisico-mentale e una migliore posizione per catturare più palloni e migliorare questa statistica.

In difesa, quello che abbiamo visto per l’attacco non accade, in quanto, dei quattro fattori considerati, tutti fanno registrare valori maggiormente positivi quando il figlio di Dell è in campo, mostrando ancora una volta quale sia la sua importanza e il suo influsso sui compagni: la percentuale di rimbalzi difensivi catturati, quindi, diminuisce leggermente senza di lui (da 75,8% a 75,4%, perché l’uomo da Akron va a caccia del rimbalzo per far partire subito la transizione/contropiede), così come la percentuale di palle perse avversarie (da 14,9 a 14,2), mentre l’effettiva percentuale dal campo concessa (da 45,5 a 50,2%) e il rapporto rivale fra tiri liberi tentati e tiri dal campo tentati (da 0,254 a 0,304) aumentano quando Steph non è in campo.

B

asandoci allora solo sui numeri e sui valori fatti registrare dalla squadra con o senza Curry sul campo e proiettandoli su 82 partite, otterremmo un risultato secondo il quale gli Warriors arriverebbero a conquistare circa 38 vittorie stagionali. Non un grandissimo risultato, se equiparato a quello della scorsa stagione e, ancora di più, a quello che si prospetta alla fine di questa, ma comunque discreto considerando il fatto che sarebbe ottenuto senza il favorito principale per l’MVP di quest’anno e un giocatore in grado di colmare da solo parecchie delle mancanze e delle carenze dei propri compagni.

Mettendo da parte ora la proiezione ottenuta tenendo in considerazione le cifre fatte registrare dal team senza Steph in campo, vediamo di giungere ad un’altra conclusione, valutando l’impatto che avrebbe la sua assenza sui compagni, in termini di redistribuzione dei minuti di gioco, e cosa questi anderebbero a combinare nel maggior tempo passato in campo.

Ovviamente, tutti, nessuno escluso, gli attuali atleti facenti parte del backcourt, dovendo spartirsi i 34,9 minuti di media che Curry passa sul campo, vedrebbero considerevolmente aumentare il proprio utilizzo: per fare 3 esempi significativi, Barbosa passerebbe da 14,9 minuti medi a partita a 20, Livingston da 20,9 a 34,6 e Iguodala da 28,2 a 32.

Nessuno evidentemente però, sebbene siano tutti buoni giocatori, in grado di dire la loro e di avere un buon impatto sul campo, anche con più minuti nessuno potrebbe replicare le fenomenali giocate di Steph e mettere insieme numeri e prestazioni da capogiro, sostanzialmente una sera si e l’altra pure.

Nonostante questo (quasi) dato di fatto, l’effetto totale dei cambiamenti impressi alle rotazioni porterebbe Golden State ad avere un Net rating di 3,4, che oggi varrebbe la nona posizione assoluta in questa classifica, appena dietro ai Toronto Raptors e parecchio avanti ai Los Angeles Clippers (2,3). In termini di vittorie, applicando questo valore ad un calendario di 82 gare stagionali, gli Warriors si attesterebbero su un impressionante record di 50 vittorie e 32 sconfitte circa, valore assolutamente sorprendente se pensiamo al fatto che sarebbe ottenuto senza il proprio uomo franchigia.

Ad ogni modo, come si può vedere, i valori e il numero di vittorie ottenuti, utilizzando due metodi diversi e considerando cifre differenti, sono decisamente discordanti, molto lontani da loro e, per questo, anche decisamente poco veritieri. La realtà infatti è un’altra e dice che gli Warriors hanno un clamoroso Net rating di 15,2 su 100 possessi (che mantenuto fino alla fine della regular season, gli garantirebbe più o meno 74 vittorie) e soprattutto, perdendo o togliendo comunque Curry dalla squadra e dai numeri fatti registrare finora, ciò che verrebbe meno alla squadra di San Francisco, e che nessuno dei due metodi precedenti riesce a misurare in modo scientifico e imparziale, è il tangibile impatto e leadership che Curry esercita sui compagni, quel quid che li spinge ad esprimere un’intensità fuori dal comune, a buttarsi su ogni pallone, a difendere forte, ad esprimersi a dei livelli superiori e che, per forza di cose, sarebbe realmente difficile sostituire o avere da un qualsiasi altro giocatore del roster.

Con Curry in campo, la percentuale di tiro reale di tutta Golden State, con le eccezioni di Harrison Barnes e Festus Ezeli, è migliore (Klay Thompson passa addirittura da sopra il 60% con il suo gemello in campo, a poco più del 35% quando questo è assente) e l’Offensive rating di tutti cresce a dismisura quando è lui a gestire il gioco rispetto a quando non è lui a farlo.

Anche queste statistiche però, insieme a tutti i possibili grafici e analisi coi numeri che si possono fare, alla fine, non restituiscono l’energia contagiosa che il folletto con gli occhi assassini vestito di giallo blu mette in campo ogni sera e ad ogni match e non rendono conto della chimica, dei legami e della voglia di sostenersi l’un l’altro e del piacere di giocare insieme che si vengono a creare tra i compagni di squadra partita dopo partita.

È quindi, in conclusione, molto difficile fare una previsione certa e credibile di quante vittorie potrebbero conquistare gli Warriors senza Curry, ma, certamente, i numeri di cui abbiamo parlato e che abbiamo descritto sopra rivelano un’indubbia verità: Steph è un ingranaggio vitale per la franchigia della baia, un playmaker in grado di incendiare pubblico e compagni, di spostare equilibri e superare difficoltà con apparente facilità, di trasformare anche le cose più banali in gesti esteticamente inappuntabili, di concentrare su di sé occhi e attenzioni di tutti ma non sentirne poi la pressione, di tradurre in movimento (e in punti o assist) quello che lui pensa o immagina in frazioni di secondo.

È, quindi, un giocatore magnetico, che, con leggerezza ma in maniera molto concreta, esercita la sua autorità e la sua influenza, senza però mai ostentarle, farle pesare a qualcuno o imponendole con la forza.

Anche per questo è magico e, senza di lui, non sarebbero solo gli Warriors a perderci in termini di gioco, vittorie e appeal, ma la lega intera e, a quel punto, a rimpiangerlo ci saremmo anche noi…quindi perché toglierlo!? Godiamocelo!

DiRedazione Voci di Sport

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