Dopo la scorpacciata di gol all’esordio, l’Inter inciampa rovinosamente a San Siro contro l’Udinese, uscendo sconfitta per 2-1. Un passo falso che racconta molto più di un semplice blackout, perché mette in luce le prime crepe di un progetto tecnico che, per ora, vive a corrente alternata.
La partita si era messa sui binari giusti con il gol di Dumfries, bravo a inserirsi e a finalizzare. Ma proprio l’olandese, nel giro di pochi minuti, è diventato involontario protagonista in negativo: un tocco di mano in area ha concesso a Davis il rigore dell’1-1. Da lì in avanti, l’Inter si è lentamente spenta, fino a subire la bordata da fuori di Atta, che ha sfruttato l’ennesima incertezza di un reparto arretrato ancora troppo compassato, soprattutto sul lato destro, dove Bisseck ha mostrato limiti di lettura e di lucidità.
Il dato più preoccupante non è solo la sconfitta, ma la modalità con cui è arrivata: una squadra che si accende a lampi, che concede troppo spazio alla creatività individuale senza un filo conduttore. La differenza rispetto alla gestione Inzaghi è lampante: là dove prima il campo era una scacchiera in cui ogni pedina sapeva quando e come muoversi, oggi sembra regnare un’improvvisazione che lascia troppo spazio a leziosismi e personalismi. Un gioco che diverte a tratti, ma che fatica a essere concreto e cinico.
Il nodo tattico è chiaro: l’Inter di oggi non ha ancora trovato un equilibrio tra libertà ed organizzazione. La difesa, già indicata come punto debole alla vigilia, continua a confermarsi fragile, poco reattiva e priva di quell’aggressività necessaria per reggere l’urto di squadre ordinate e fisiche come l’Udinese.
Resta allora una domanda aperta: l’arrivo di Akanji sarà sufficiente a ridare solidità e consapevolezza al reparto, o servirà molto di più per evitare che questa “nuova malattia” dell’Inter si trasformi in una pericolosa costante della stagione?