In this fall… this is very tough… in this fall I’m going to take my talents to South Beach and join the Miami Heat”, nemmeno trenta parole firmate LeBron James, cinque anni fa, cambiarono per sempre il corso dell’NBA. Era dai tempi di Shaquille O’Neal (ci perdoni il Garnett 2007) che una superstar così dominante, il volto della Lega, non cambiava franchigia, con inevitabili reazioni a catena, e per giunta ciò avveniva attraverso uno speciale tv su ESPN, la famigerata “Decision”. Quello che ci chiediamo noi oggi è: come sarebbero andate le cose se, in quell’8 luglio, il Prescelto avesse detto “I’m keeping my talents in Cleveland, Ohio and bringing the NBA title to the Cavaliers”?

Difficile dirlo, quel che è certo è che i Miami Heat non avrebbero avuto lo stesso radioso destino. Dwyane Wade, dopo non esser riuscito a portare in Florida l’amico, fa le valigie e torna a casa, a Chicago, per comporre con Derrick Rose, il futuro MVP, in un dynamic duo di nativi della Windy City che lo speaker dei Bulls non può che definire “too big, too strong, too fast, too good”. Probabile che, a fare compagnia a LeBron, sarebbe andato uno dei grandi nomi della free agency 2010: Carlos Boozer, che a Cleveland aveva iniziato il suo percorso nella Lega, prima di esplodere a Utah. Amar’e Stoudemire resta a Phoenix, ma ormai, come Nash, è in parabola discendente, Chris Bosh, stufo di Toronto, raggiunge con Joe Johnson la Grande Mela, dove, in un altro ritorno a casa, arriverà Carmelo Anthony. via trade. Shaq resta ai Cavaliers per un altro giro di valzer, insieme al giovane Danny Green.

La stagione 2010/2011, invece del titolo dei Mavericks di Nowitzki e compagni, vede trionfare i Bulls che, superati in semifinale di Conference i Knicks, per i quali servirebbero tre palloni, si sbarazzano dei Cavs di LeBron nelle finali dell’Est, per poi superare, al termine di una delle serie finali più belle della storia, gli emergenti OKC Thunder, che nelle Western Conference Finals hanno inflitto una sonora lezione sul piano fisico agli Spurs. Una sconfitta che spinge Coach Popovich, durante la notte del draft, a scambiare George Hill, uno dei suoi più fidi generali sul parquet, per arrivare a Kawhi Leonard, del quale intravede le devastanti potenzialità. A fine primo giro, quel volpone di R.C. Buford completa il capolavoro, draftando Jimmy Butler, altro ragazzo da sgrezzare, ma dalle doti fisiche eccezionali.

Il draft 2011 vede i derelitti Clippers, che nel frattempo non hanno ceduto la prima scelta assoluta ai Cavaliers, aggiudicarsi Kyrie Irving, che andrà a comporre con Blake Griffin, fresco rookie dell’anno, un’elettrizzante coppia nella metà sfigata di Los Angeles. Chris Paul, stanco di una deludente New Orleans, si unisce a James nella caccia al primo anello, attraverso uno scambio con Mo Williams, Jamison e scelte future. Le due personalità, per quanto fortissime, riescono a conciliarsi, e CP3 compie il primo viaggio alle Finals della sua vita, ma un roster poco profondo condanna Cleveland alla sconfitta contro i Thunder di uno straripante Harden, che si prende titolo NBA e trofeo di MVP delle Finals. Ovviamente, dopo una performance del genere, il proprietario di OKC rompe il regime di austerity, e non si fa problemi a dare al Barba i milioni richiesti per non andarsene a Houston. Anthony Davis, inevitabilmente, finisce a New Orleans, che ritrova un giocatore degno di tal nome.

Il 2013 – finalmente, oseremmo dire – è l’anno di LeBron: King James, a quasi cinquant’anni dall’ultimo titolo visto in città, porta il Larry O’Brien Trophy in riva al lago. Cleveland osanna il suo salvatore, che è riuscito dove il Tempo ha fallito: sconfiggere l’immortale Tim Duncan, che, insieme ai suoi giovani e meno giovani scudieri, cede in sei gare ai Cavs del Prescelto. Il momento decisivo? Una tripla in angolo di Danny Green, che brucia il tardivo recupero sul perimetro di Parker. A chiamare per primi al draft, poche settimane dopo, sono i Boston Celtics, che hanno iniziato un’aggressiva politica di rebuilding, smantellando il core della squadra del titolo 2008: Garnett è tornato a Minnesota, Paul Pierce si è accasato nella nativa Los Angeles, sponda Lakers, dove i rapporti con Kobe e il nuovo arrivato Howard stentano a decollare, tanto che Superman inizia già a brontolare, complicando la vita a Phil Jackson, il quale decide di abbandonare la panchina gialloviola, chiudendo la sua straordinaria carriera da head coach.

La stagione successiva è una sinfonia Spurs: gli uomini di Popovich, forti dell’esplosione definitiva di Leonard e Butler, si impongono al termine di un’annata nella quale hanno mostrato una pallacanestro per palati fini, con circolazione del pallone in attacco e una difesa che non fa respirare gli esterni avversari, fondamentale, in particolare, nella finale dell’Ovest, contro Westbrook, Harden e Durant. Nelle Finals è dolce rivincita sui Cavaliers, privi di un Chris Paul fermato da problemi fisici e con un Boozer ormai in parabola discendente. Infortuni che, nelle ultime stagioni, hanno anche martoriato quei Bulls capaci di trionfare nel 2011, condizionati dalle precarie condizioni di un usurato D-Wade e delle ginocchia di Rose.

Il nostro LeBron alternativo, che non è poi così diverso da quello del mondo reale, decide che, dopo undici anni a casa, è tempo di muoversi altrove in cerca di compagni più giovani e futuribili: quale destinazione migliore dei Clippers?

Con James, Irving e Griffin a Los Angeles i padroni non sono più i Lakers, come dimostrato dallo sweep al primo turno di playoff. Al secondo turno crollano anche gli eterni Spurs, mentre nelle WCF sono i Thunder, belli quanto perdenti, a soccombere. Nelle Finals, al cospetto di un emergente Steph Curry, finito a Indiana a fare il bello e cattivo tempo con Paul George e Lance Stephenson (a causa di una scellerata scelta del front office dei Warriors), a spuntarla sono i californiani, che alzano il primo banner della loro storia allo Staples Center.

[Questo scenario è solo uno degli infiniti possibili in un universo come quello NBA, che funziona particolarmente “a incastro”. Non c’è la presunzione che possa essere realistico, è un semplice gioco mentale e come tale va preso]

DiRedazione Voci di Sport

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