Su queste pagine ci siamo già occupati di come i regimi totalitari di destra (fascismo e nazismo), comprendendo l’importanza e l’appeal sulle masse del calcio, abbiano cercato di controllarne strutture e protagonisti, a fini propagandistici e non solo, lo stesso approccio venne adottato anche dal regime sovietico.
Nonostante gli ingenti mezzi destinati a cercare di primeggiare nello sport, il calcio, per le sue specificità (l’imprevedibile e riuscito mix di organizzazione di squadra e talento individuale), finì per sfuggire alla ‘programmazione’ dei successi, tanto che, a livello internazionale, furono relativamente pochi i trionfi ottenuti. Il periodo migliore per la Nazionale sovietica fu quello a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta quando una generazione di campioni seppe trascinarla alla sua prima apparizione al mondiale (nel 1958 in Svezia) e, due anni dopo, al suo primo trionfo internazionale, l’Europeo 1960. Tra le stelle di quel periodo possiamo ricordare Igor’ Netto, Ėduard Strel’cov, Viktor Ponedel’nik, Valentin Ivanov, e quello che da molti è stato considerato il più grande ‘numero uno’ di tutti i tempi, il ragno nero Lev Jašin, unico portiere, finora, a vincere il Pallone d’oro. Il rendimento dei sovietici fu sempre elevato a livello di campionati europei dove raggiunsero la finale (uscendone sempre sconfitti) anche nel 1964, nel 1972 e nel 1988, mentre nel 1968, in Italia, finirono quarti. Ai mondiali invece il miglior risultato fu il quarto posto raggiunto nel 1966, quando vennero fermati in semifinale dalla Germania Ovest e battuti nella finalina per il terzo posto dal Portogallo di Eusébio.
Ancor migliore fu il “bottino” raccolto dall’Unione Sovietica alle Olimpiadi (grazie però all’escamotage del ‘dilettantismo’ di stato che permetteva ai paesi del blocco comunista di presentarsi con le loro rappresentative maggiori), con 2 medaglie d’oro (nel 1956 a Melbourne e nel 1988 a Seoul) e 3 medaglie di bronzo (nel 1972 a Monaco, nel 1976 a Montreal e nel 1980 a Mosca).
Lo sport, fin dagli inizi, è stato dunque uno dei campi in cui mostrare la superiorità e i progressi del sistema comunista su quello liberal-capitalistico, da qui l’inevitabile enfasi con cui, già in epoca staliniana, venivano salutati i grandi successi degli atleti targati CCCP. Il rovescio della medaglia non potevano che essere l’omologazione ed il controllo, con il conseguente soffocamento e stritolamento di tutto ciò che ostacolava la visione totalitaria dello stato ma, anche, di tutti coloro che avevano il ‘torto’ di non sentirsi parte di quel sistema e di voler guardare il mondo senza la lente deformata dell’ideologia.
In quest’ottica è drammaticamente esemplare la vicenda capitata ad Ėduard Anatol’evič Strel’cov, più semplicemente, Eduard Streltsov. Nato a Mosca il 21 luglio del 1937, sin da giovanissimo si mise in luce come straordinario talento nella Torpedo Mosca, la squadra delle Industrie Zil, di cui divenne nel tempo il simbolo indiscusso. Attaccante dal talento cristallino e dall’innegabile fiuto del gol, tra il ’54 ed il ’57, stagione in cui arriverà settimo nella classifica del Pallone d’oro, Streltsov realizzò quasi 50 reti mettendo in mostra un repertorio da fuoriclasse assoluto. Lontanissimo dallo stereotipo del calciatore sovietico, tutto forza, corsa e sostanza, era fantasioso, estroso, amante del colpo di tacco (tanto che ancora oggi, in Russia, lo chiamano il colpo alla Streltsov), e salì agli onori delle cronache internazionali, appena diciassettenne, quando realizzò una tripletta in amichevole alla grande Svezia. Era nata una stella! Molto occidentale, con quel suo ciuffo ribelle, Streltsov era assai naif anche fuori dal campo, dove era uno dei maggiori protagonista della dolce vita moscovita, grande amante delle feste, delle donne e della vodka, che lo trasformarono in una sorta di icona vivente, vero e proprio mito per la gioventù sovietica (un Best ante litteram per intenderci).
Come si evince dalle caratteristiche del personaggio, lontano anni luce dal modello di ‘eroe sovietico’ da esportare oltre cortina, ben presto il regime si ‘interessò’ a lui. Facevano certo paura la sua indocilità e la sua irrefrenabile capacità nell’infrangere le regole, ma, tuttavia, i dirigenti sovietici decisero di ignorare gli svantaggi della situazione cercando di usare a loro vantaggio i lati che potevano venire utili. Nonostante tutto, quindi, si puntò decisamente su Streltsov approntando un piano che avrebbe dovuto trasformarlo nel simbolo della rinascita dello sport sovietico. Nel 1956 partecipò alle Olimpiadi di Melbourne, dove vinse, quasi da solo, la semifinale contro la Bulgaria ai supplementari, ma il CT dell’epoca non gli fece disputare la finalissima togliendogli la possibilità di fregiarsi della medaglia d’oro, visto che il Regime aveva deciso ne avessero diritto solo i titolari. Ben presto, tuttavia, l’estroso attaccante, per il suo sfrenato individualismo, che lo spingeva a considerare sacra la sua libertà, sia in campo che fuori, fece capire di non poter essere controllato o usato come un semplice strumento. Nel 1958, fedele a sé stesso, rifiutò il trasferimento, dalla sua amata Torpedo, alle due squadre del Soviet, il Cska Mosca, la squadra dell’Armata Rossa, e la Dinamo Mosca, quella del KGB, nonostante, in questo ultimo caso, l’insistenza del mitico Yashin. Questo suo rifiuto fu l’inizio dei suoi guai, il suo comportamento ribelle cominciò ad essere mal tollerato in una società in cui ogni personalismo era bandito e considerato come un potenziale pericolo per il sistema. La situazione precipitò ulteriormente quando, nel maggio del 1958, in una festa nella dacia di Eduard Karakhanov, un militare tornato dall’Estremo Oriente, il giovane ‘ribelle’, secondo quanto si narra, avrebbe rifiutato di sposare la figlia di Yekaterina Furtseva, l’unica donna del Politburo di quegli anni, aggiungendo come chiosa finale: “Non la sposerei mai quella scimmia”. Apparentemente la cosa sembrò passare in cavalleria, come una delle tante goliardate di Streltsov, che continuò la preparazione per quei mondiali del 1958 che avrebbero dovuto essere la vetrina del nuovo corso sovietico e del suo innegabile talento.
Proprio pochi giorni prima dell’inizio del mondiale, però, arrivò improvviso lo stop delle autorità sovietiche. Nonostante una serie di prove fumose e contraddittorie Streltsov venne rinchiuso nella prigione della Butirka con l’accusa infamante di aver stuprato, nel corso di quella festa nella Dacia, una sua coetanea, Marina Lebedeva. Persuaso da false promesse, e con la naturale ingenuità dei ragazzi della sua età, il giocatore firmò una confessione di quanto successo, previa la garanzia di poter comunque partecipare al mondiale in Svezia, ma, così facendo, firmò la sua condanna. Gli vennero infatti affibbiati dodici anni di lavori forzati in un gulag, che troncarono la sua carriera impedendogli di spiccare il volo proprio in quella competizione che vide l’esplosione dell’adolescente Pelè. Venne liberato, dopo 5 anni, nel 1963, ma potè tornare a giocare solo due anni più tardi. Streltsov, dopo i durissimi anni passati in miniera, non era più il fuoriclasse che tutti erano pronti ad applaudire in Svezia, ma erano comunque rimaste tracce dell’antica classe e, di quell’estro così odiato dal regime, tanto che fu eletto miglior calciatore sovietico nel 1967 e nel 1968 e tornò a vestire la maglia con la scritta CCCP finendo la sua carriera in Nazionale con 38 gare impreziosite da 25 reti. Il periodo trascorso nel lager gli portò il conto molti anni dopo, esattamente nel 1990, quando i suoi polmoni non ressero all’avvelenamento progressivo riportato durante il duro lavoro in miniera e lo condussero prematuramente alla tomba. Ma andandosene, realizzò la sua ultima rete, quella definitiva, forse la più significativa: era infatti riuscito a resistere sino alla fine del regime che lo aveva oppresso per tanti anni, tarpandogli le ali e spegnendone il talento immenso, e che era crollato proprio pochi giorni prima…