La storia del calcio è illustrata da campioni, squadre, partite ed eventi che hanno avuto un grande impatto sull’immaginario collettivo.
In quest’ottica uno degli eventi che più toccarono l’opinione pubblica italiana e mondiale fu sicuramente la tragedia di Superga del 1949.
In 150 anni di storia ci sono state squadre che hanno permeato di sè, per il gioco offerto e per i successi ottenuti, un’intera epoca (la Honved di Puskas, il Real Madrid di Di Stefano, il Santos di Pelè, l’Ajax di Cruijff, il Bayern di Mueller, il Milan di Sacchi, il Barcellona di Messi), una sola però è passata direttamente dai successi sul campo alla leggenda: il Grande Torino.
Quella in cui nacque l’epopea dei granata era un’Italia avvilita ed umiliata da vent’anni di dittatura, reduce da un conflitto perduto e da una guerra civile lacerante e che stava, laboriosamente, lavorando alla ricostruzione non solo materiale, ma, anche, e soprattutto, civile e sociale.
Dopo i guasti e gli orrori del fascismo godevamo di poca, o nulla, credibilità internazionale, tra i pochi momenti per un sorriso ed una piccola gioia, nelle cupe e faticose giornate degli italiani, c’erano le gloriose gesta dei nostri campioni sportivi che portavano nuovamente in auge, sulla stampa internazionale, il nome dell’Italia: Bartali, Coppi, Consolini, la Ferrari e, appunto, il Grande Torino.
Riconosciuti da sempre come un popolo di grandi individualisti gli italiani, attraverso le gesta di una squadra come il Torino, finirono per ricevere un messaggio di grande unione di intenti e di sacrificio, qualità che rappresentavano uno sprone a tutti per superare le difficoltà e le ristrettezze del momento.
I granata, guidati da Valentino Mazzola, il capitano dei capitani, autentico leader e trascinatore del gruppo, stabilirono record strabilianti e assolutamente irripetibili.
La leggenda racconta che bastava un suo gesto, rimboccarsi le maniche, per dare il là al ‘trombettiere’ del Filadelfia per attaccare le note della ‘carica’ e, in pochi minuti, la squadra si svegliava dal suo torpore per schiantare l’avversario di turno.
Nel 1947, l’11 maggio, l’allora C.T. della nazionale Vittorio Pozzo, vestì d’azzurro 10 granata su 11 per affrontare e battere, a Torino, l’Ungheria.
In quel periodo storico, in cui non erano state ancora istituite le competizioni europee, il Grande Torino era considerata la squadra più forte del mondo, che, con indosso la maglia azzurra, era data tra le grandi favorite per fregiarsi del titolo mondiale ai Campionati mondiali del 1950.
Forse proprio per questa fama di invincibili i brasiliani li invitarono per una tournèe che venne disputata nel luglio del 1948. I risultati furono altalenanti: pareggio con il Palmeiras per 1-1; sconfitta col Corinthians per 2-1; vittoria col Portuguesa per 4-0.
La lontana trasferta in Sudamerica ci dà l’occasione per sottolineare come il Torino fosse una delle poche squadre, all’epoca, a spostarsi in aereo, almeno per le trasferte più lunghe, anche se la maggioranza dei giocatori, ad iniziare dall’allenatore Ferrero, non erano certo così entusiasti, visto che gran parte di essi avevano paura.
Del resto viaggiare in aereo aveva due chiari vantaggi: da una parte permetteva di arrivare meno affaticati, dall’altra trasmetteva anche l’immagine di una società scattante e moderna.
A fine aprile del 1949 i granata iniziarono i preparativi per partecipare alla partita di addio al calcio del giocatore portoghese Francisco Ferreira, caro amico di Valentino Mazzola, in programma il 3 maggio.
Pochi giorni prima della partenza la squadra andò a disputare a Milano contro l’Internazionale una partita chiave in ottica scudetto.
Il 3 maggio dunque, a Lisbona, si disputò la partita contro il Benfica, che resterà purtroppo l’ultima disputata dal Grande Torino.
Di fronte ad oltre quarantamila spettatori il Torino venne sconfitto per 4-3. Il giorno dopo, 4 maggio, la squadra si imbarcò alla volta di Torino Caselle.
Quel pomeriggio Superga era avvolta in una spessa coltre di nebbia, una pioggia sferzante ed un forte vento rendevano le condizioni climatiche proibitive.
Alle 17:05, nella sua stanza al primo piano della basilica, il cappellano del tempio, prof. Don Tancredi Ricca stava leggendo.
Nel silenzio, rotto dalla pioggia e dai tuoni, si materializzò un rauco rombo, forse un aereo pensò tra sè il cappellano, come tanti che passavano lassù prima di scendere su Caselle, certo, con quel tempo, c’era da aver paura solo al pensiero di trovarsi in una carlinga sballottata dagli eventi atmosferici.
La pioggia che aveva già provocato danni in tutto il Piemonte scendeva con raffiche violente, le nubi incombevano, basse e cupe.
Nella cabina della stazione radio del campo di Caselle regna un silenzio angosciato: si aspettano messaggi da parte dell’aereo del Torino, un 212 Fiat trimotore, atteso per le 17:00.
Finalmente s’ode l’atteso ticchettio dell’apparecchio: “Siamo sopra Savona. Voliamo sotto le nubi, a 2000 metri, fra 20 minuti saremo a Torino”.
La notizia rimbalza in un bar vicino, dove tutti brindano.
Un altro ticchettio:”__.__..__” Vuole il rilevamento radiogonometrico. È un’operazione semplice. Piton ci mette pochi secondi “QSM 280°”. Alle 17:02 la richiesta del bollettino metereologico: “Nebulosità intensa, raffiche di pioggia, visibilità scarsa, nubi 500 metri”.
Ore 17:03. L’aereo trasmette: “Ricevuto, sta bene, grazie mille”.
È l’ultimo messaggio.
Poco dopo l’aeroplano si frantuma contro il pianterreno di Superga.
Dal terreno di gioco quella squadra, inarrivabile, di grandi uomini e grandi campioni passò così direttamente alla leggenda.
Il 6 maggio 1949 una folla oceanica, valutata in oltre mezzo milione di persone, accorre un po’ da tutta Italia, a presenziare ai funerali facendo da ali al mesto corteo.
Da una testimonianza dell’epoca: ‘Li abbiamo visti venire giù dallo scalone dello Juvarra nell’atrio di Palazzo Madama. E come non mai abbiamo avuto la certezza dell’immensità della catastrofe. Venivano già racchiusi nelle bare e portati dai compagni, dagli amici, dai colleghi. Scendevano ad uno ad uno, lentamente, tra i cordoni d’onore ufficiali dei carabinieri in alta uniforme, e dietro a ciascuno seguivano i parenti in lacrime, coi primi fiori. Un corteo che pareva non finire più. Quando sono comparse le salme, un lungo brivido ha pervaso gli astanti. Giovani e vecchi singhiozzavano, molti sono caduti in ginocchio, mentre le bare si susseguivano e venivano caricate sugli autocarri verniciati di nuovo. Poi i fiori le hanno ricoperte, le innumerevoli corone sono state caricate sulle vetture a seguito, il corteo si è formato facendo il giro della piazza. Tutti avevano voluto essere presenti all’ultimo saluto.’