Inter in Champion's League

”Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo”, nasceva così, il 9 marzo 1908, l’Fc Internazionale Milano, da una costola di dissidenti stranieri del Milan, perché, come diceva scherzosamente l’avvocato Prisco, la Beneamata non ha mai ”nascosto le sue umili origini”.

Ed in fondo, fratelli del mondo i nerazzurri lo sono stati davvero, perché sì, l’Inter, che oggi festeggia 107 anni di storia, nella sua lunga vita ha accolto molti stranieri, e l’ha anche conquistato, quel mondo di cui si parlava poc’anzi: 107 anni da festeggiare, dicevamo, e quale miglior regalo di un pazzo pareggio maturato nei 20′ finali di Napoli, costruito da chi, diciamolo, pazzo lo è di natura, e per di più da due di quei ”fratelli del mondo”, gli argentini Icardi e Palacio.

Tanti auguri Inter, dunque, ed in 107 anni di storia i nerazzurri ne hanno passate tante, dalle soddisfazioni degli inizi, ai molti grandi nomi, alle soddisfazioni in ambito internazionale ma, soprattutto, alle cocenti delusioni, come quella, indimenticabile per chi tifa questi colori, del 5 maggio, cancellata poi dal Triplete, fino ad arrivare ai giorni nostri ed a quella crisi che ora si spera di allontanare: 18 scudetti, 7 Coppe Italia, 5 Supercoppe Italiane, 3 Coppe dei Campioni/Champions League, 3 Coppe UEFA, 2 Coppe Intercontinentali ed un Mondiale per Club, è questo il palmares nerazzurro.

Mica male per chi era nato da dei dissidenti rossoneri, non trovate? L’Inter nasce sotto l’egida di Paramithiotti, presidente considerato come uno iettatore che deve camuffarsi per andare all’Arena a vedere le partite, ma soprattutto ammira le prodezze di Luigi ”Zizì” Cevenini, il primo fuoriclasse della storia nerazzurra e trascinatore della squadra delle origini, con una media gol da urlo e, dopo di lui, ne abbraccerà eccome, di giocatori che possono emozionare le folle.

Siamo negli anni ’30, ed il vivaio nerazzurro partorisce un certo Giuseppe Meazza, che diventerà il trascinatore dell’Ambrosiana Inter, squadra più forte di quell’epoca, e dell’Italia ed uno dei maggiori campioni di quegli anni, salvo poi vestire anche le maglie di Juventus e Milan a fine carriera e contribuire, da tecnico, a lanciare un certo Sandro Mazzola: Meazza però non è solo, visto che lo seguiranno l’apolide dai piedi d’oro Istvàn Nyers, una sorta di Ibrahimovic dell’epoca per il suo essere decisivo e le sue mattane, e soprattutto Benito Lorenzi, tignoso attaccante odiato da tutti i difensori, ma che aveva rubato il cuore ai tifosi nerazzurri per quell’innata garra simil-argentina.

È un’Inter che alterna scudetti ad annate in cui non riesce ad emergere, questa, e quando nel 1955 Angelo Moratti acquista il club, nessuno può immaginare quello che sta per succedere: dopo alcune stagioni interlocutorie e delle delusioni che poi verranno conosciute anche dal figlio Massimo, nel 1960 l’imprenditore meneghino azzecca la mossa che lo consacrerà nella storia, ovvero l’ingaggio di Helenio Herrera, il maestro del Taca la Bala. Arrivano i talenti Burgnich, Facchetti, Mazzola e Corso, che col Mago esploderanno, arrivano Suarez per 250 milioni di lire e la freccia Jair, ma soprattutto arriva una mentalità di gruppo, aiutata dalle doti di leadership del capitano di mille battaglie Armando Picchi, che porta a lottare su ogni pallone e, dopo quel 9-1 per protesta contro lo strapotere della Juventus (inizio di una rivalità che farà storia), consacra l’inizio di un ciclo che porterà a tre titoli nazionali ed alle prime due Coppe Campioni della storia nerazzurra, che poi diventeranno tre nel 2010.

Esatto, tre come il numero perfetto, tre, come le Champions League conquistate da quella pazza 107enne che 5 anni or sono, sollevava la propria, ultima coppa dalle grandi orecchie, 5 anni? Ma pensa te…

Le vittorie nella competizione per club più prestigiosa del pianeta, dalle parti di Corso Vittorio Emanuele sono come legate, ma più che da fili, le trionfali campagne continentali sono legate da lettere. Ci sono la M ed una doppia H, se fosse una formula chimica, sarebbe quella del successo, quella che indica gli elementi più significativi della storia del Biscione, quella che denota le personalità più fulgide che i tifosi nerazzurri possano ricordare. La M sta per Moratti e Mourinho, come la doppia H, sta per Helenio Herrera, è l’equazione migliore in 107 anni di storia.

Erano gli anni ’60 ed i soldati di Helenio erano pezzetti di storia che deambulavano per i prati verdi: da Sarti a Peirò, passando per Picchi, Burgnich, Guarneri, Facchetti, Bedin, Mazzola, Suarez, Jair e Corso. La si potrebbe ripetere tutta d’un fiato, come la dimentichi una squadra così? Chissà quante volte i vostri padri, ve ne avranno parlato con gli occhi lucidi, o chissà quante volte voi, avrete trattenuto le lacrime parlandone ai vostri figli. Era la squadra della doppia Champions, presa per mano dal primo Moratti, Angelo, quell’angelo che così in alto la fece volare, era la squadra di Giacinto Facchetti, il Cipe che portò in alto l’Inter e divenne uno dei giocatori più amati della nostra Serie A.

La terza gioia dello stesso calibro, arriva dopo 45 anni, e se ci fosse bisogno di ricordarvi la data, allora vi diciamo che era 22 maggio 2010, lo stadio era il Bernabeu, l’avversario era il Bayern Monaco, il presidente era Moratti, junior pur essendo Massimo, in panchina c’era Mourinho, portoghese come Helenio, e l’eroe di quella notte, aveva pure un titolo nobiliare: El Principe. Le lacrime sono obbligate ma sincere, la gioia che spacca i cuori dopo un’attesa infinita, dopo 45 anni, l’Inter era di nuovo Inter, e Zanetti poteva alzare, come Picchi, quella tanto sognata Coppa dalle grandi orecchie, eguagliando, insieme ai vari Eto’o, Samuel, Julio Cesar, Milito, Cambiasso, Sneijder e compagnia cantante, l’epopea della Grande Inter.

No, non ci siamo dimenticati della terra di mezzo tra le due Inter vincenti in Europa, ma semplicemente era impossibile non paragonare quelle due squadre belle nel Bel Paese, ma anche fuori, ed ora facciamo un piccolo passo indietro: il ciclo della Grande Inter finisce come una bolla di sapone (sì, non è successo solo all’Inter post-Triplete) ed Angelo Moratti decide di passare il testimone ad Ivanoe Fraizzoli, presidente forse troppo buono, per riuscire a contrastare lo strapotere dell’emergente concorrenza. L’Inter torna a vincere ed essere grande in Europa (finale persa con l’Ajax di Cruyff) con Invernizzi, dopo il fallimento targato HH2, lanciando giovani come Oriali e Bordon, ma successivamente incappa in alcune annate-no e delusioni, che nel 1984 porteranno al nuovo passaggio di proprietà ed alla cessione ad Ernesto Pellegrini: ”il nostro cuoco”, come lo chiamò Agnelli per la sua attività, il presidente dell’Inter von Deutschland, per i tifosi.

Gutten morgen Inter. È questo il saluto tedesco alla beneamata, che riecheggia nelle menti di ogni tifoso, non solo nerazzurro, perchè ogni calciofilo che si rispetti, non dimenticherà mai la saga meneghin-teutonica di fine anni ’80, che annovera nomi su nomi, uno migliore dell’altro, ma il migliore, non riusciamo a trovarlo neanche noi.

Il primo dei Von a vestir i colori del cielo sullo sfondo dorato delle stelle, fu un certo Horst Szymaniak. Non fate finta da sapere chi era, tanto non lo conoscete: Szymaniak era un centrocampista prelevato dal Catania su richiesta di Helenio Herrera in persona. Poi, si passa ai nomi che scottano, quelli che tutt’ora, figurano nel walk of fame di sua maestà il pallone, e che hanno vestito il nerazzurro negli anni sopraccitati.

C’è Karl-Heinz Rummenigge, che mangiava palloni d’oro e digeriva trofei fagocitati negli anni bavaresi. 42 gol e tanti ricordi. Passano 4 anni, e sotto le guglie del Duomo, arriva un altro patito dei metalli preziosi, quelli a forma di pallone. Lo spirito guerriero lo nascondeva nel nome, perché Lothar è, un nome da guerriero. Lothar Matthäus, era poesia, era biondo, bello e di gentil aspetto, come il Tancredi del purgatorio dantesco, e poi era forte, forte da non credere ai propri occhi. Ci sono Andreas Brehme e Jurgen Klinsmann, che assieme a Lothar, facevano felice quella vecchia volpe di Trapattoni, divorando uno scudetto da record. Ci fu Matthias Sammer, che dopo 12 presenze capì che per vincere il Pallone d’oro avrebbe dovuto tornare in patria, e così fece. L’ultimo erede al trono tedesco nel feudo di Appiano, si chiama Lukas Podolski, che vi piaccia o no, anche se non è difficile intuire ciò che state pensando.

L’Inter dei tedeschi conquista uno storico scudetto da record con Trapattoni, ma dopo la squadra targata-Pellegrini passa dei momenti difficili, che portano sì ad una nuova Coppa UEFA nel 1994, ma anche al rischio-retrocessione: il patron, dopo alcuni sbagli pazzeschi come quello legato a Darko Pancev, si disamora, e nel 1995 decide di cedere a Massimo Moratti, chiamato a rinverdire i fasti del padre, e sottoposto ad una grande pressione.

L’era Moratti inizia con l’acquisto di un certo Javier Zanetti e, quando il terzino argentino arriva, nessuno si aspetta quanto diventerà importante nella storia nerazzurra: Pupi partecipa a quella finale di Coppa UEFA persa contro lo Schalke 04, venendo quasi alle mani con Hodgson, ed è uno dei trascinatori nell’epopea del 1997-98 che, coi gol di Ronaldo e non solo, porta l’Inter a vincere la competizione europea ed a sfiorare lo scudetto, soffiato dalla Juve nello scontro diretto col noto episodio del rigore di Iuliano: di lì in poi inizia una fase strana, nella quale l’Inter spende tantissimo, ma male (subendo l’onta del 6-0 contro il Milan), Moratti difende a spada tratta un talento ad intermittenza, ma amatissimo dai tifosi nelle giornate-sì, come Alvaro Recoba, e poi arriva il 5 maggio a strappare dalle maglie dei giocatori di Cuper uno scudetto già conquistato, e buttare tutti nello sconforto.

Maledetta Lazio in quel giorno, maledetto Milan e maledetti gol in trasferta nella doppia sfida che nella stagione 2002-03 elimina i nerazzurri dalla possibile finale di Champions contro la Juventus, e sancisce la fine reale dell’era Cuper: dopo l’interregno di Zaccheroni a Milano arriva Mancini, ed il tecnico semina i primi passi per tornare grandi (vedi Coppa Italia) che poi, dopo la bomba-Calciopoli, porteranno l’Inter a quel ciclo da 5 scudetti consecutivi diviso tra il Mancio e Mou, con la fondamentale partecipazione di Zlatan Ibrahimovic, ed alla nascita di quell’Inter vincitutto di cui abbiamo parlato sopra. Moratti resiste ancora qualche anno, ma vedere l’Inter cadere senza poterci far nulla a livello economico e tecnico, non fa per lui, ed allora ecco che arriva il passaggio di mano ad Erick Thohir nel novembre del 2013.

Si stava meglio quando si stava meglio, ed oggi, dall’Indonesia fino alla vecchia Milano, non si può certo dormire su tanti guanciali.

Il post-triplete è triste e malinconico perché gestito in modo discutibile, diciamo la verità, ed ecco che l’Inter diventa Kafkiana, inventandosi la metamorfosi. Da bella e invincibile, la Pazza diventa fragile ed insicura. Cambia la proprietà, il nuovo padre putativo viene dall’Oriente ed ha studiato in Occidente, parla tanto di business, e a dirla tutta, non gode ancora di completa fiducia. Cambiano giocatori e soprattutto stipendi e potere d’acquisto, cambiano gli allenatori, tanti allenatori: Mancini (e con lui Santon) comes back to home, giusto in tempo per rimettere le cose apposto, o almeno per fare un tentativo.

Provaci ancora Mancio, e tanti, tantissimi auguri Pazza Inter.

DiRedazione Voci di Sport

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