La notizia, che circola ormai da qualche settimana negli ambienti dei vari insiders, è di quelle clamorose: i Golden State Warriors, campioni NBA in carica e lanciati verso un’altra stagione da record, sarebbero in pole position nella corsa a Kevin Durant, MVP nel 2013/2014 e pezzo più pregiato della prossima free agency estiva. Una voce che ha fatto sognare i tifosi californiani, eccitati al solo pensiero di aggiungere Durantula a quella che, in questo momento, è per distacco la miglior franchigia della Lega cestistica per eccellenza. Ma converrebbe effettivamente agli uomini di Steve Kerr sacrificare le pedine necessarie per arrivare a KD, diminuendo la profondità del roster? Voci di Sport prova ad analizzare pro e contro in una puntata speciale della rubrica “What If”: non “cosa sarebbe stato?”, ma “cosa potrebbe essere?”.
La situazione in cui si trova, in questo momento, Golden State è la seguente: un nucleo stellare composto da tre giocatori nel pieno della loro carriera (Curry, Thompson e Green, tutti al di sotto dei ventotto anni), un veterano di primissimo livello come Iguodala, MVP delle ultime Finals grazie al suo lavoro incessante in marcatura su LeBron James, qualche altra figura di contorno in Livingston, Speights e Bogut, un centro emergente (Ezeli), e l’uomo che, allo stato attuale delle cose, rappresenta il punto interrogativo più grande per la franchigia di Oakland.
Harrison Barnes, scelto con la settima chiamata al draft del 2012, è un’ex grandissima promessa del basket USA – ai tempi del liceo era considerato una sorta di nuovo Kobe – che però, tanto al college quanto tra i pro, ha faticato a confermare le attese, anche a causa del suo essersi trovato in un roster che aveva già dei leader tecnici come Curry e Thompson, e dell’arrivo di Iguodala, essenzialmente un doppione, per posizione sul parquet, del prodotto di North Carolina. Nell’ultimo anno del suo rookie contract, il classe 1992 sta sfoderando i migliori numeri della propria giovane carriera, tanto per produzione, quanto per percentuali al tiro.
Dopo non aver firmato l’estensione con i Warriors nello scorso autunno, The Senator sarà un restricted free agent in estate, quando i Dubs potranno pareggiare qualsiasi offerta proveniente dalle altre franchigie per mantenerlo ai propri servigi. Offerta che, con ogni probabilità, sarà pari al massimo salariale, vista la versatilità di un elemento come Barnes, che, finora, sembra aver offerto solo in minima parte quanto potrebbe dare in un altro contesto, da secondo violino e non da comprimario di lusso.
Golden State, in estate, si troverà dunque di fronte a un bivio importante: pareggiare le offerte per Barnes oppure puntare dritto su Durant, per far sì che nel proprio roster figurino (a tenersi stretti) due dei migliori cinque giocatori dell’intera NBA, accompagnati da altri due dei primi venti? Un quesito la cui risposta non è così facile come sembra. La storia, infatti, insegna che, una volta formato un nucleo di stelle di tale calibro, i risultati non sono automatici – per informazione rivolgersi ai Lakers versione 2004 o ai primi Heat dei Big Three – e anzi, il rischio di sacrificare eccessivamente la profondità sull’altare del talento del primo quintetto è inevitabile, con la necessaria conseguenza di dover completare il pacchetto con veterani a caccia di un’ultima chance da titolo o onesti mestieranti del parquet. Niente più Barbosa, Livingston e Bogut, ma una serie di elementi dal chilometraggio ormai avanzato. E per ogni David West o Ray Allen, per fare un paio di nomi altisonanti, c’è il rischio di ritrovarsi un roster composto dai vari Dampier, Stackhouse e Bibby ormai bolliti, come accadde a Miami nella prima stagione con LeBron James, un’annata dove, alle Finals, la panchina dei Mavericks, trascinata dai tarantolati Terry e Barea, stritolò quella della franchigia della Florida.
Parlando in termini strettamente numerici, almeno in vista della prossima estate, il sacrificio più logico sarebbe quello di Barnes, magari attraverso un doppio sign and trade, tanto per lui quanto per Durant, ma tale scenario dovrebbe trovare l’approvazione anche dell’ala da North Carolina, e Livingston, giocatore dalla meravigliosa comprensione del gioco, ma non necessariamente coerente con la direzione che sta prendendo la pallacanestro, se si considerano le sue storiche difficoltà al tiro pesante.
Un altro elemento pronto a lasciare la baia di San Francisco potrebbe essere Andrew Bogut, dal lato sbagliato dei trent’anni e con un passato di infortuni alle spalle. I contratti firmati da questi ultimi due dovrebbero consentire di trovare facilmente una nuova collocazione, ma per “liberarsene” i Warriors potrebbero essere in un certo senso presi per il collo dagli altri front-office, trovandosi costretti, per dar vita al proprio piano, a cedere anche delle prime scelte future, in cambio di quello spazio salariale necessario per far sbarcare ad Oakland KD e, non va dimenticato, mantenere un’elasticità sufficiente da consentire di rifirmare con un contratto che, ovviamente, sarà al massimo salariale, Steph Curry, il grande artefice del successo di Golden State, nell’estate 2017.
Il pericolo di esser costretti a scambiare prime scelte, fondamentali per avere modo di firmare giocatori di contorno a prezzi ragionevoli, è concreto, e il gm Bob Myers dovrà essere molto attento, dopo aver già ceduto a Utah la prima scelta del 2017 (e quella 2014, poi trasformatasi in Rodney Hood) nell’affare che, ormai quasi tre anni fa, portò Iguodala dalle parti della Oracle Arena. Il rischio è quello di trovarsi costretti, per completare il roster senza elevare eccessivamente l’età media, ad affidarsi alle scelte del secondo giro, o a giocatori provenienti dall’Europa ma non scelti al draft, una sorta di terno al lotto in una lega dove l’affidabilità è fondamentale.
Analizzati i costi, però, è il momento di passare in rassegna i benefici che Durant porterebbe con sé nella baia. Volendo considerare il suo ambientamento nelle rotazioni di Steve Kerr, l’ala dei Thunder prenderebbe idealmente il posto di Harrison Barnes. Il prodotto di Texas è un tiratore eccezionale, che realizzerebbe con precisione chirurgica i frequenti assist di Draymond Green, la macchina da tripla doppia che sta dietro al successo dei Warriors, l’uomo che ha cambiato il corso degli eventi in California dal momento in cui ha preso il posto di David Lee in quintetto. A differenza di quanto accade con la maggior parte delle superstar NBA, che per le loro doti fuori dal comune sono solite avere perennemente la palla in mano, KD è già abituato ad agire off the ball, essendo nella stessa squadra di uno dei giocatori più accentratori di gioco del pianeta come Russell Westbrook.
Se poi si considera quanto Golden State sia abile nello sfruttare il dominio fisico dei propri elementi sui pari ruolo dal post (su tutti Thompson e Barnes), figuriamoci cosa potrebbe fare in situazioni del genere Durant, abilissimo nello sfruttare i mismatch derivanti dai suoi duecentosei centimetri. Da non sottovalutare, poi, la sua capacità di agire tanto da bloccante quanto da portatore di palla in un pick&roll, frutto delle numerose situazioni in cui, nei finali di gara, il P&R tra lui e Westbrook è stato la principale opzione di OKC in attacco. Ecco, immaginiamo uno scenario in cui, mentre Curry è a riposo, a tenere la scena – e la palla a spicchi – è Kevin Durant, per non parlare di cosa potrebbe succedere con Steph in campo, pronto sul perimetro per ricevere uno scarico del nuovo acquisto, sul quale la difesa avversaria si troverà costretta a collassare.
Sicuramente qualcosa, per i Warriors, andrà perso nella metà campo difensiva, dato che il nativo di Washington è un marcatore individuale inferiore rispetto a un giocatore estremamente solido come Barnes, ma la presenza nel roster di uno specialista sugli esterni come Iguodala, in grado di prendere in consegna la miglior ala avversaria, toglierà in tal senso gran parte del peso dalle spalle del numero 35, un po’ come avveniva nei primi anni ad Oklahoma City, quando a guardare le spalle a Durantula era lo svizzero Thabo Sefolosha.
Poi, parlando in termini particolarmente prosaici, avere quattro stelle in squadra è meglio di averne tre. Lo sanno bene proprio i Thunder, che nell’estate 2012 preferirono rinunciare a James Harden, che in breve sarebbe emerso a Houston come la miglior guardia della Lega, per puntare sul trio composto da Durant, Westbrook e Ibaka ed avere maggior flessibilità salariale per completare il roster con giocatori di seconda fascia, garantendo ai tre leader un supporting cast adeguato per competere ogni anno per il titolo. Un obiettivo ragionevole, se si considera che proprio nel giugno precedente OKC aveva centrato le prime Finals della sua storia, perse al cospetto della Miami dei Big Three, e che i migliori giocatori avevano meno di venticinque anni.
Un traguardo che, però, non è più stato raggiunto dai Thunder, penalizzati ogni anno da infortuni a giocatori chiave che, nei momenti decisivi della stagione, hanno impedito di tornare a competere per l’anello, fino alla cocente esclusione dai playoff nella scorsa annata, a causa dei problemi fisici accusati in inverno da Westbrook e Durant. Alimentando, inevitabilmente, i rimpianti per la decisione di tagliare Harden, rilevatasi ancor più insoddisfacente in seguito al rendimento di Jeremy Lamb, la principale contropartita offerta dai Rockets nella trade insieme a Kevin Martin il cui contratto, dopo la prima annata in riva al North Canadian, non venne rinnovato.
I Warriors, in questo ultimo anno e mezzo, sono stati estremamente fortunati sul piano fisico, ma in una Lega con contatti così frequenti e duri i guai fisici sono sempre dietro l’angolo, e “cautelarsi” aggiungendo una quarta stella sarebbe un’inestimabile assicurazione per le speranze da titolo dei Dubs. E, non ultima tra le motivazioni, c’è quella di “eliminare”, di fatto, una delle più insidiose rivali della Western Conference, che perderebbe l’uomo franchigia e rischierebbe, nell’estate 2017, di dover salutare anche Westbrook, che difficilmente avrebbe chances di vincere il titolo a OKC.
In definitiva, raramente una superstar di questo livello, in grado da sola di spostare gli equilibri di una franchigia, ha trovato terreno più fertile di quello che troverebbe Durant a Golden State per esaltare le proprie caratteristiche. Non è stato così per LeBron quando è arrivato a Miami, né per Shaq nei suoi numerosi spostamenti, mentre l’esempio più paragonabile può essere quello di Kevin Garnett, che però, al momento del suo arrivo in casa Celtics, era già il punto di riferimento per tutti. Steve Kerr e il suo front-office, durante l’estate, dovranno essere pronti a tutto pur di strappare KD alla concorrenza, perché il suo arrivo aumenterebbe in maniera esponenziale il divario, già decisamente ampio, con le inseguitrici.